EPIFITE fue publicado en Italia por Edizioni Arcoiris en Noviembre de 2012 formando parte del volúmen de cuentos de mi autoría “Istantanee d’inquietudine” (pp . 49-55), todos ellos en traducción de Dajana Morelli, posteriormente, en enero de 2015, apareció en la revista de filosofía y literatura "Pagine Inattuali" (
www.pagineinattuali.com ), n . 4, pp . 131-138.
EPIFITE
Anch’io pensavo che respirare l’aria che ogni
giorno ci riempie i polmoni e ci ossigena il sangue servisse in qualche modo a
ripulire l’interno del nostro corpo. Questa affermazione è sbagliata. Con
l’aria penetrano un’infinità di microrganismi, alcuni vivi, altri morti (come
spiegano molto bene medici e scienziati) che si stabiliscono dentro il nostro
corpo. Alcuni vivono lì tutta la vita, altri ci arrivano solo dopo morti.
Spiegare la sensazione che si
prova a mandar fuori una boccata d’aria sarebbe poco rilevante, ma se l’aria è
accompagnata da piccole farfalle bianche coperte da una polvere finissima,
fragili e svolazzanti farfalle notturne, la spiegazione diventa impossibile.
Per lo spavento che mi son
preso posso ricordare il giorno e l’ora esatti in cui mi è successo per la
prima volta. Fortunatamente era notte (non c’è da sorprendersi dato che si
tratta di farfalle notturne) e nessuno se ne è accorto, tranne un ubriaco che
sonnecchiava con la testa sul tavolo, aggrappato a un bicchiere ormai vuoto, che però non ha costituito un pericolo
visto che i pochi clienti presenti nel locale non gli hanno prestato la benché
minima attenzione. Nemmeno quando ha gridato:
«Farfalle! Quel tipo sputa
farfalle!». Quelli che stavano giocando a carte a uno dei tavoli vicini non si
sono presi neppure il disturbo di girare la testa per dirgli di stare zitto.
Per quanto abbia cercato di
scoprire l’origine delle mie farfalle, non sono riuscito a elaborare nessuna
teoria abbastanza convincente. Be’, per spiegare la loro origine forse sì, ma
non la loro sopravvivenza qui, dentro i miei polmoni e, ultimamente, in tutto
il corpo. È facile immaginare come possano essere entrate: trascinate dal vento
quando erano ancora minuscole e fragili uova. Una volta dentro, a poco a poco
si sono sviluppate, probabilmente, come tutti gli imenotteri, hanno dovuto
attraversare anche il periodo della metamorfosi. Queste cose le so perché le ho
chieste con grande disinvoltura alla signorina Julia, una maestra in pensione.
Me le ha spiegate molto bene, anche se le mie domande l’hanno un po’ sorpresa.
Devono per forza nutrirsi di
qualcosa. Questo è stato il mio primo timore e anche il mio primo sbaglio,
perché credevo che si stessero mangiando il mio corpo, i miei organi interni,
come dei parassiti. Adesso so che sono innocue, anche se ancora non ho capito
di che cosa si nutrano.
Forse contraddico la scienza
affermando che in tutto questo tempo non mi hanno mai dato nessun fastidio, se
si esclude, è ovvio, l’imbarazzo che provo quando mi scappano davanti alla
gente, come nel caso di quella donna che nel treno si è messa a gridare. Con
gli altri passeggeri, accorsi per aiutarla, ho fatto finta di niente. E loro si
sono presi la briga di convincerla che aveva sognato, che a nessuno escono farfalle
dalla bocca. Lei, nonostante tutte le spiegazioni, non mi ha tolto gli occhi di
dosso per il resto del viaggio. Io, a scanso di equivoci, non ho più
sbadigliato.
Se i miei calcoli sono
esatti, rimangono nel mio corpo tra i dodici e i quindici giorni. Poi volano
fuori, mentre dentro ne nascono altre. Per un paio di settimane sono rimasto
quasi senza mangiare, ma non sono morte, non hanno dato il minimo segno di
turbamento. Così ho dimostrato che non si nutrono neppure di quel che mangio. È
curioso che si riproducano tutto l’anno e non abbiano una stagione precisa,
come il resto degli animali, il che mi fa pensare che dentro di me non ci sia
differenza tra una stagione e l’altra: il mio corpo deve essere una specie di
eterna primavera.
Immagino che queste farfalle,
con il loro comportamento così anomalo, siano ancora sconosciute alla scienza.
Non mi piacerebbe che venissero scoperte, perché immediatamente mi
tempesterebbero di domande, si metterebbero a studiarmi, e io non avrei nessuna
risposta convincente da dargli. Non so come e quando siano arrivate né come
facciano a sopravvivere qua dentro senza nutrirsi. D’altra parte non
m’interessa più saperlo. Stanno con me, e questo mi basta.
Al mondo esistono milioni di
varietà di farfalle bellissime. Devo riconoscere, anche se mi dispiace
ammetterlo, che le mie sono brutte, piccole, sbiadite e, soprattutto, fragili.
Ma se non altro sono mie, vivono dentro di me, e io sono per loro un rifugio
piacevole e sicuro. Confesso (perché non dovrei farlo?) che provo un grande
affetto per loro (non si amano forse anche i cani e i gatti?) e che mi riempie
di gioia vederle uscire dalla mia bocca di notte, quando è buio e fa freddo,
osservarle mentre svolazzano nella stanza, tracciando disegni nell’aria, e poi
quando si disperdono, si dirigono verso le finestre, raggiungono il cielo,
volteggiano per un istante sopra la casa della signorina Julia e infine fuggono
verso le luci più attraenti della città. E pensare che all’inizio le temevo,
non solo perché credevo che mi stessero divorando, ma anche perché nutrivo una
certa apprensione per la polverina che mi restava attaccata alle labbra.
Inoltre mi terrorizzava l’idea che qualcosa stesse invadendo il mio corpo – il
mio povero corpo attero – qualcosa che avrebbe potuto provocarmi grandi
sofferenze impossessandosi di pezzi di polmoni, di fegato e di altri organi.
Alla fine mi sono convinto della natura riconoscente e pacifica che le
caratterizza. Non le sento più se non quando arrivano all’altezza della gola: è
un solletico che mi obbliga ad aprire la bocca il più possibile, come se
volessi sbadigliare.
Non sento più il bisogno di
andarmene in giro di notte. Prima uscivo spesso a passeggiare. Dicevo che era
per respirare aria pura, ma in realtà era per vedere più gente, per non sentirmi
solo al mondo. Da quando ci siamo reciprocamente accettati, non ne ho più
bisogno, posso restare ore a guardarle che escono dalla mia bocca e svolazzano
allegramente, avvolte in una sottilissima nuvola di polvere dorata. E pensare
che dopo che si sono manifestate per la prima volta, non uscivo più di casa per
quell’atavico timore del ridicolo che abbiamo noi atteri. Avevo sempre paura
che potessero scapparmi nel posto e all’ora più inopportuni – come con la donna
nel treno – facendomi vergognare. Adesso escono solo se glielo chiedo. Sono
molto obbedienti.
Certe notti ce ne andiamo a
spasso per il paese. Mi assicuro sempre che nessuno possa vederci e le avviso.
Loro escono a svolazzare un po’, a prendere l’aria fresca e a giocherellare.
Quando passo davanti alla casa della signorina Julia faccio più attenzione
perché quell’edificio (che pure non ha niente di particolare) sembra
inquietarle a tal punto da spingerle a salire su per la gola, come se volessero
uscire a tutti i costi. Si rifiutano di obbedirmi, e allora devo accelerare il
passo, e non si calmano finché non ci siamo allontanati. In quella casa deve
nascondersi qualcosa che le turba, che le induce a disobbedirmi, a fuggire via,
ne sono certo.
Spesso, quando le vedo
perdersi nell’infinito, mi chiedo dove vadano a morire le mie farfalle. Nei
libri trovo soltanto risposte generiche e molto vaghe. Nessuno sembra
considerare il fatto che le mie farfalle sono insolite, diverse dagli altri
imenotteri. Mi soffermo anche a osservare le altre persone, nella speranza di
trovare in qualcun altro sintomi di farfalle, che invece sembrano essere una
mia esclusiva. Mi lusinga saperle così mie, ma mi riempie anche di tristezza
pensare che siamo così soli… Mi piacerebbe che ci fosse altra gente piena di
farfalle.
A volte,
quando il sole è già tramontato e sul paese scende una piacevole frescura,
passo il tempo a sonnecchiare sotto i salici sulle rive del torrente. Rimaniamo
lì, io e le mie farfalle, fino all’imbrunire. A volte contemplo le luci della
città, lontane e giallastre, e le sento accalcarsi dietro ai miei occhi per
spiare, vorrebbero volare verso quel bagliore. In quelle luci c’è qualcosa di
speciale che le attira, ed è un po’ la stessa inquietudine che provano ogni
volta che passiamo davanti alla casa della signorina Julia, nonostante le luci
siano spente. Le sento andare su e giù per tutto il corpo. In preda
all’agitazione, percorrono le sottili gallerie delle mie vene e delle mie
arterie, scivolano nello stomaco, svolazzano nei polmoni.
Un giorno siamo andati al
torrente durante la siesta, quando il paese intero dorme al riparo di stanze
immerse nella penombra. Lì, vicino all’esile corso d’acqua, in mezzo alla folta
vegetazione, si respira un’aria un po’ più fresca. In genere non ci va nessuno,
solo ogni tanto si vede qualche bambino che preferisce tirare pietre nel fiume
invece di dormire. Quel pomeriggio ho notato che le mie farfalle erano più
inquiete che mai. Quando uscivano a volare si allontanavano più del solito, non
mi obbedivano, e quando rientravano si fermavano tutte all’altezza della gola.
Producevano un leggero ronzio, come se stessero discutendo qualcosa
d’importante e vitale. Se ne stavano tranquille per un po’ e poi si agitavano
di nuovo. Dopo una pausa troppo lunga ho sentito che si raggruppavano nella
bocca e lottavano per uscire una prima dell’altra. Tutta quella confusione mi
ha sorpreso, così, un po’ per indispettirle, un po’ per divertirmi, ho chiuso
la bocca con forza. C’è stato un istante di smarrimento, poi uno di silenzio.
Infine si sono dirette ordinatamente verso le fosse nasali da dove le ho viste
uscire in due file. Mi sono tappato le narici con le dita e si sono agitate di
nuovo. Poi si sono calmate un attimo, come se stessero deliberando, e ho
pensato: “Adesso cercheranno di scapparmi dalle orecchie!” e mi sono ingegnato
per tapparle, ma mi sono sentito preso in giro quando le ho viste venir fuori
una dopo l’altra dai condotti lacrimali. Ridotte a una pallina si lasciavano
rotolare lungo le guance e poi prendevano il volo. Sconfitto, ho liberato
bocca, naso e orecchie e le ho lasciate uscire ridendo. Si sono allontanate in
un turbinio di ali. Le ho chiamate ma non mi hanno dato retta. Per curiosità le
ho seguite fino a che non le ho viste fermarsi per svolazzare sopra a un
cespuglio. Si sono posate sui rami, sbattendo le ali rumorosamente e riempiendo
l’aria di una polvere dorata. Non le avevo mai viste così inquiete. Mi sono
avvicinato pian piano, di nascosto. Si muovevano con una tale frenesia,
baluginando in una miriade di riflessi, che sembravano raddoppiate di numero.
Allora mi sono sporto in avanti per prenderle e riempirmene le mani. Ho
spostato dei rami e, con mia grande sorpresa, ho visto dietro ai cespugli una
persona che sembrava ancora più sorpresa di me. Lei era lì, in piedi, immobile,
si tappava la bocca con le mani. Appena mi ha visto si è tranquillizzata. L’ho
salutata un po’ confuso e lei, la signorina Julia, ha ricambiato il saluto con
un cenno della testa. Poi ha abbassato le mani e mi ha rivolto un sorriso pieno
di farfalle:
«È un pomeriggio
meraviglioso» mi ha detto.